La storia dei valdesi medievali è avvincente, affascinante, complessa. Avventurose sono le vicende documentarie. Uomini e documenti intrecciano il loro chiaroscurale destino in una lotta per la sopravvivenza: in un combat contro l’oblio. Particolarmente – straordinariamente – ricco è il terreno di coltura: si tratti di manoscritti inquisitoriali (esito di una longeva repressione antiereticale) o di codici letterari (frutto di una originale esperienza religiosa). Al centro di un bersaglio mobile ci sono i barba: i predicatori itineranti valdesi, tramite e catena di trasmissione di un messaggio (contenuto nei testi religiosi) e di un modello di vita (fissato nei processi inquisitoriali). Non è esagerato definire i libri dei predicatori itineranti valdesi «una delle più singolari occasioni culturali della storia del cristianesimo occidentale» . Una “occasione culturale” del presente con radici lontane, inserite in un contesto dove – spesso – la realtà supera la fantasia e l’inverosimile diventa reale, soprattutto se pensiamo alla drammaticità della condizione umana imprigionata nei meccanismi di un processo inquisitoriale.

Compito/dovere dello storico è chiarire tali contesti nel momento in cui compie quel delicato percorso di “avvicinamento alla distanza” qual è la ricostruzione storica.

Una consapevole svolta religioso-culturale ebbe luogo anche nel XVII secolo e, più precisamente, nel 1605 quando sul tavolo di Jean Paul Perrin, pastore riformato di Nyons, convergono manoscritti (religioso-letterari e giudiziario-inquisitoriali) per la composizione di una Histoire des Vaudois commissionata dal sinodo delle chiese riformate del Delfinato. L’impresa era grandiosa, verrebbe da dire memorabile: ricucire pezze documentarie relative ai valdesi nello sforzo di illustrare un passato “intonso” (ovvero senza precedenti tentativi di ricostruzione complessiva) dando avvio nel contempo alla nascita della storiografia valdese.

Jean Paul Perrin non ha il dono dell’obiettività, non ha consapevolezze metodologiche. Se i fatti sono piegati ad esigenze ideologiche, i manoscritti sono spiegati con finalità confessionali proprie di quel presente/passato. Il suo racconto è caratterizzato da episodi di vera e propria affabulazione. Non manca il mistero: a partire dalla lingua – incomprensibile – dei petits livres dei barba, piccoli libri manoscritti da bisaccia di dimensioni ridottissime, definita «language des barbes», proseguendo con l’approccio binario con cui la storia dei valdesi veniva unita a quella altrettanto incognita degli albigesi (i cosiddetti catari), per giungere al caso più estroso e stravagante dell’epopea documentaria valdese ossia l’episodio del sainct butin. L’incendio della Torre Bruna di Embrun, nel 1585, permise agli ugonotti di impossessarsi dei documenti degli inquisitori medievali e, forse, anche dei libri dei barba. Pur rilucente nel fuoco dell’attacco ugonotto, il fatto rimane denso di ombre.
Compito/dovere dello storico è fermarsi di fronte all’intensa invalicabilità di tali oscurità.

Per chi scrive un romanzo in cui il passato abbia un ruolo protagonista, non si pongono tali steccati: il non finito del passato aggancia creativamente il presente e, se il terreno documentario è ben arato, l’avventura narrativa cresce rigogliosa. Il pre-testo apre la strada al Pretesto. Con questo romanzo, e le altrettanto avvincenti prosecuzioni, Sergio Velluto coinvolge con una scrittura sciolta e ironica, direi quasi autoironica, dal tratto delicato. L’avvio narrativo è un progetto reale (ma non realizzato): una mostra degli antichi codici valdesi presso l’Archivio di Stato di Torino. Poi, una botta in testa, la scomparsa di uno dei piccolissimi manoscritti, una «giovane ricercatrice in carriera» appassionata al proprio lavoro, un giornalista altrettanto coinvolto, un amore. Quotidianità, piccole storie, viaggi (non a caso a Lione), alla ricerca di un codice che aveva già viaggiato a lungo nel medioevo nelle bisacce dei barba. Sergio Velluto non ha perso l’“occasione” del confronto con i manoscritti medievali: ne è nata una bella storia e – perché no? – una “occasione culturale”.

La storia non si vede (a differenza della pittura, della scultura e dell’architettura), non si ascolta (a differenza della musica e della liturgia): si legge – con fatica – nei documenti, e si ri-crea, in un processo ri-creativo che, in tal senso, deve anche poter divertire. Una buona avventura narrativa con i giusti ingredienti di suspense e di corretta adesione ai dati storici può aiutare il compimento di un delicato “avvicinamento alla distanza”: può aiutare la comprensione di ciò che è trascorso, di ciò che separa donne/uomini del presente da donne/uomini del passato.

Marina Benedetti
Milano, agosto 2015


E. Balmas, Premessa, in Nuove ricerche di letteratura occitanica, a cura di E. Balmas, Torino 1983, p. III.

M. Benedetti, Il «santo bottino». Circolazione di manoscritti valdesi nell'Europa del Seicento, Torino 2007.

 

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